“L’isola che non c’è”: un viaggio nella disabilità mentale, intervista all’autrice Amalia Palma

Maggio, tra le altre ricorrenze, è il mese dedicato a sensibilizzare l’opinione pubblica e non solo sulla salute mentale. Tutto ha inizio nel lontano 1949 quando Mental Healt stabilisce che il benessere di un individuo è dato dal giusto connubio di salute fisica e mentale.

Quale migliore opportunità di scandagliare queste tematiche/problematiche se non parlarne con Amalia Palma, che ha da poco pubblicato: L’Isola Che Non C’è.

Il suo libro ci accosta delicatamente ad una parte dell’universo umano che, quasi sempre, si fa finta che non esista; o, quantomeno, è preferibile evitare di parlarne. I fatti e gli accadimenti di questi ultimi decenni più che al brano di Bennato mi riportano al Roberto Vecchioni di: I Pazzi Sono Fuori. Il professore la scrive nel 1972, ed è tutto dire.

Stiamo vivendo in un mondo innevato da polvere bianca, diluita con ettolitri di super alcolici che tanta gioventù ha devastato sia nel corpo che nel cervello.

Pertanto, per comprendere quanto fotografava Vecchioni in quegli anni, vi riporto un breve passaggio: “E i pazzi sono fuori, non cercateli qui, il mondo dietro i muri, e più disperato di qui”.

L’occasione, perciò, di approfondire di più l’argomento, ci viene offerta da Amalia Palma la quale, attraverso la sua esperienza vissuta, ci ricorda, riportando agli inizi del volume una considerazione di MLK, come l’arte di vivere assieme siamo ancora lontani dall’apprenderla.

Con gentilezza e competenza, ecco quanto ci ha detto l’autrice di questo libro.

Partiamo citando un passaggio del libro: “Per loro, la diversità è vissuta come un trauma, percepita come la causa della permanenza nei centri di accoglienza e ospedali, vittime di ingiuste discriminazioni. Si sentono come “scarti” della società”. Data la sua esperienza le chiedo: si rendono conto che la loro disabilità è, per una conclamata visione del problema, diversa da una menomazione fisica, e che pertanto il resto del mondo ha paura di loro?

Le persone con disabilità psichica o cognitiva spesso percepiscono – anche se non sempre riescono a esprimerlo con parole – il peso di uno sguardo che le giudica, che le teme, che le tiene a distanza. Non sempre comprendono appieno i meccanismi culturali e sociali che portano a questa esclusione, ma sentono chiaramente gli effetti: la solitudine, l’emarginazione, il sentirsi “fuori posto” in una società che esalta l’efficienza, la razionalità, la produttività. Molti di loro sviluppano un’intensa consapevolezza emotiva: sanno di essere guardati “diversamente”, e spesso interiorizzano quel rifiuto come un fallimento personale, come se fosse colpa loro. Ma non lo è. La verità è che il mondo ha paura di ciò che non riesce a comprendere pienamente. E la disabilità psichica, per sua natura, è difficile da decifrare. Non si vede, non si misura, e per questo spaventa più di una menomazione fisica. Eppure, chi ha la possibilità di conoscere davvero queste persone, di ascoltarle, di condividere un pezzo di strada con loro, scopre un’umanità profonda, spesso disarmante, che ci costringe a rivedere le nostre categorie, i nostri pregiudizi, le nostre “normalità”. Il trauma di cui si parla in quel passaggio non è solo legato alla condizione individuale, ma è un trauma sociale, collettivo. È il riflesso di una società che ancora fatica a fare spazio alla fragilità, alla diversità non addomesticata. Ma c’è speranza, sempre. E il primo passo è proprio quello che stiamo facendo ora: parlarne, con rispetto, con empatia, con il desiderio sincero di capire”.

Con un appropriato sottofondo musicale gli atteggiamenti ed i comportamenti si smussano e si addolciscono. Lei, che ha studiato Musicoterapia, come spiega questo vistoso cambiamento?

Non ho studiato musicoterapia in senso accademico, ma posso dire che è stata l’esperienza a guidarmi, una sorta di intuizione spontanea, quasi istintiva. Ho notato, nel tempo, come un sottofondo musicale scelto con sensibilità riesca davvero a trasformare l’atmosfera. I toni si abbassano, le tensioni si sciolgono, i comportamenti si addolciscono. È come se la musica parlasse a una parte di noi che spesso rimane inascoltata: quella più emotiva, più profonda, più umana. Non è stato un esperimento calcolato, ma un gesto naturale, nato dal desiderio di portare armonia dove c’era frizione. E sorprendentemente, ha funzionato. Credo che la musica, anche senza sapere “come”, sappia toccare le corde giuste. È un linguaggio universale che non ha bisogno di spiegazioni per sortire un effetto reale e positivo”

Nel suo libro, per ovvie ragioni, parla di terapia farmacologica. Ma quali sono i farmaci specifici per queste disabilità? E qual è la funzione ultima?

Nel contesto delle disabilità psichiatriche, i farmaci possono essere un supporto fondamentale, ma non sono mai l’unica risposta. Servono a migliorare la qualità della vita e a permettere alla persona di ritrovare un equilibrio che consenta, dove possibile, una maggiore autonomia e benessere. Ogni farmaco “dovrebbe “essere   scelto con attenzione, tenendo conto della persona nel suo insieme. : antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, ansiolitici e sedativi. Ogni persona è unica: quello che funziona per uno, può non andare bene per un altro. Ecco perché il trattamento è sempre individualizzato, basato sul rispetto, sull’ascolto e su un’alleanza terapeutica forte”

Gliel’ho chiesto perché, essendo figlio di un dipendente del Leonardo Bianchi ho avuto modo di frequentarlo spesso, per diversi motivi. Facendo avanti e indietro per gli sterminati padiglioni, suddivisi in reparto maschile e femminile, divisione solo teorica, incrociavo degli esseri umani poco aggressivi certamente, ma quasi spesso privi di volontà…

Capisco… e grazie per aver condiviso un ricordo così profondo. Il Leonardo Bianchi, per chi l’ha vissuto da vicino, resta un luogo carico di storie complesse, dolenti, ma anche umane nel senso più autentico del termine. Quella sensazione che descrivi: di persone “poco aggressive, ma quasi prive di volontà” è qualcosa che tanti hanno avvertito, soprattutto in un’epoca in cui il trattamento psichiatrico era ancora molto distante da ciò che oggi definiamo approccio personalizzato e centrato sulla persona. Spesso quegli “sguardi vuoti”, quella lentezza nei movimenti, erano il frutto non solo della malattia, ma anche degli effetti collaterali di farmaci somministrati in dosi massicce, con l’obiettivo di “sedare” più che di curare. Non per cattiveria, nella maggior parte dei casi ma per un sistema che non era ancora in grado di prendersi cura, veramente, della mente e del cuore delle persone. Si cercava il silenzio, non la guarigione. Molti degli psicofarmaci di prima generazione, soprattutto gli antipsicotici classici come l’aloperidolo, avevano effetti fortemente sedativi, provocando apatia, rigidità motoria, e in alcuni casi anche una sorta di “congelamento emotivo”. E in quegli ambienti così istituzionalizzati, dove l’individualità si annacquava nel protocollo, anche la volontà finiva per spegnersi. Oggi le cose sono cambiate …almeno in parte. C’è più consapevolezza, più ascolto, più attenzione alla dignità della persona, alla sua storia, ai suoi bisogni. Ma il ricordo di quei lunghi corridoi, di quelle vite sospese, resta. Ed è importante non dimenticarlo. Perché solo guardando negli occhi quel passato possiamo pretendere e costruire un presente più umano. Tu, che ci sei passato con gli occhi di un figlio e forse anche con quelli di un bambino curioso e sensibile, hai visto molto”.

A mio modo di vedere, la Legge 180/Basaglia –del maggio 1978- che come molti sapranno decretò la chiusura dei manicomi, sostanzialmente ha causato non pochi danni; non perché non fosse necessario un seppur evidente perfezionamento di un Modus Operandi sicuramente coercitivo e devastante per il paziente (leggi: camicia di forza, elettrochoc, legamenti alle brande, e quant’altro), ma poiché prima della totale chiusura, che ha richiesto del tempo sia chiaro, non si è pensato a strutture alternative dotate di personale medico e paramedico “attrezzato” e sufficientemente formato per continuare appropriate cure per questi pazienti i quali, non sempre, hanno trovato personale idoneo pronti ad accoglierli. Qual è il suo pensiero a tal proposito? In altre parole: la cosiddetta Psichiatria Democratica voluta da Franco Basaglia, dopo tutti questi anni, ha raggiunto il suo scopo?

Come donna, come insegnante, ma soprattutto come persona che ogni giorno condivide il cammino con alunni e famiglie che vivono le disabilità in tutte le sue sfumature non posso che avvertire dentro questa tua domanda un senso di responsabilità collettiva. La Legge 180, la cosiddetta Legge Basaglia, ha rappresentato una rivoluzione necessaria: ha restituito dignità a persone che per troppo tempo erano state spogliate della loro umanità, rinchiuse e dimenticate. L’idea che la malattia mentale potesse e dovesse essere curata non con la reclusione, ma attraverso la relazione, la comunità, la libertà e la responsabilità condivisa, ha inciso profondamente sul nostro modo di guardare la fragilità psichica. Tuttavia, come giustamente osservi, la chiusura dei manicomi è avvenuta senza una rete pienamente pronta ad accogliere questa trasformazione epocale.

Le strutture alternative, i servizi territoriali, gli operatori formati, i percorsi personalizzati: tutto questo non è nato con la stessa forza con cui si è chiuso il passato. E molti, troppi pazienti, sono rimasti in una terra di mezzo. Come insegnante, vedo ogni giorno quanto siano importanti la continuità, l’attenzione individuale, la formazione del personale, la collaborazione tra scuola, famiglia, servizi sociali e sanitari. E lo stesso dovrebbe valere ancora di più per chi convive con una disabilità psichica importante. Eppure, anche oggi, la rete è spesso fragile, i servizi sono a volte insufficienti o mal distribuiti, e chi ha più bisogno resta ai margini, invisibile. Che la cura è relazione, è ascolto, è progetto di vita. Ma siamo riusciti, davvero, a dare concretezza a questi principi? In parte sì. In parte no. Ci sono realtà bellissime in Italia, esperienze di eccellenza, comunità che funzionano. Ma c’è ancora tanta solitudine. Tanta disorganizzazione. Tanta mancanza di strumenti e di cura continuativa. Va nutrito di formazione continua, di investimenti seri, di attenzione educativa, e soprattutto permettimi di umanità vera”.

A tal proposito: uno dei suoi “personaggi”, la direttrice Giada, sembra provenire da quella scuola…

Giada è una figura formata in una cultura psichiatrica più antica, rigida, distante, in cui i protocolli vengono prima delle persone e dove l’empatia non è mai stata materia d’insegnamento. Ma proprio questo la rende un personaggio interessante e vero. Non è cattiva. È semplicemente figlia di un tempo e di un sistema che non le ha insegnato a guardare l’essere umano prima della diagnosi. E questo, in ambito educativo e sanitario, succede ancora troppo spesso.

Eppure, “nell’ isola che non c’è” si fa potente. L’amore dei ragazzi che lei non comprende pienamente, l’attraversa, la mette di fronte a qualcosa che va oltre ogni manuale: la vita vera. Questa è una storia che parla della possibilità di trasformarsi. Che ci ricorda che l’empatia può insegnarsi, sì, ma può anche contagiarsi.”

Sicuramente saprà che dopo gli evviva per la sprangatura, ritenuta a giusta ragione mortificante ed avvilente per una nazione perbenista solo a chiacchiere, di questi indecenti luoghi di ricovero, innumerevoli individui, di entrambi i sessi, stazionavano e girovagavano, in quanto abbandonati a se stessi, nei pressi della rotonda di Capodichino non sapendo dove andare e creando notevoli disagi ai residenti. Molti, quasi tutti, non avevano di come sopravvivere “fuori dalle mura”, che talvolta rappresentava un sicuro rifugio; tantissimi altri/e furono rifiutati dalle stesse loro famiglie, impreparate e timorose di accoglierli in casa. Le chiedo una sua analisi di quel momento storico, che oggi, ovviamente, verrebbe espressa con senno di poi…

Non fu un effetto collaterale imprevisto della Legge Basaglia: fu un fallimento collettivo di visione, organizzazione e cura. Con il senno di poi, possiamo dire che la chiusura dei manicomi fu un atto giusto nei principi, ma troppo affrettato nei modi. E questo non perché non fosse necessaria anzi, era urgente ma perché la società non era pronta a sostenere quel carico di umanità restituita. I “nuovi liberi” furono lasciati soli. In un sistema sociale che, pur liberandoli fisicamente, non si prese davvero cura del loro reinserimento, né costruì un tessuto di accoglienza e dignità. Non bastava aprire le porte: bisognava aprire case, servizi, comunità. E tutto questo, spesso, non avvenne. Dal punto di vista educativo e umano, quella fu una lezione tragica. Ci fece capire e lo abbiamo capito troppo tardi che liberare qualcuno non significa solo togliergli le sbarre, ma offrirgli un contesto di vita dignitosa, fatta di ascolto, accompagnamento e relazioni significative”.

Ad un certo punto nel suo libro irrompe la sociologa Mina la quale, senza alcuna avvisaglia, le comunica: “Non verrò più!”. E dopo il suo stupore le confessa: “Mi è stato chiesto di svolgere mansioni che non mi competono, di approvare terapie a cui sono contraria. Non posso! Andrei contro la mia deontologia professionale…”. Qual era il suo malessere?

Il malessere di Mina è il malessere di molti professionisti onesti che si trovano a operare dentro sistemi malati. È un grido sommesso ma fermo: quello di chi ha scelto un mestiere per vocazione, per rispetto dell’essere umano, e si ritrova invece imbrigliato in logiche che tradiscono profondamente quei valori. Mina è una sociologa. Non è una figura “clinica” nel senso stretto, ma porta nel suo sguardo l’umanità, la relazione, il contesto sociale e culturale della persona. È abituata ad ascoltare, a leggere i silenzi, a difendere le identità invisibili. E all’improvviso, forse nel silenzio progressivo di un ambiente che si irrigidisce, si accorge di qualcosa: le si chiede di avallare terapie che sente estranee, forse eccessive, forse standardizzate, forse troppo legate a un approccio farmacologico o medico-sanitario che ignora le storie individuali. E allora Mina si tira indietro. Non lo fa con rabbia, né con accusa. Ma con quella lucidità dolente tipica di chi sa che restare significherebbe spezzarsi dentro”.

Nonostante i vari Centri Di Salute Mentale; i Servizi Psichiatrici Di Diagnosi E Cura; i Dipartimenti e le comunità terapeutiche per la riabilitazione a lungo termine: possiamo dire che la reale portata del problema della disabilità mentale venga ancora sottovalutata?

Sì. Con tutto il cuore, sì: la disabilità mentale continua ad essere sottovalutata. Nonostante i Centri di Salute Mentale, i SPDC, i Dipartimenti, le Comunità, e tutta la terminologia che negli anni si è fatta via via più corretta, più “umana”, la percezione reale, profonda, collettiva del disagio psichico è ancora lontanissima dall’essere matura. Perché? Perché la disabilità mentale non si vede. Non si tocca come una carrozzina. Non ha un linguaggio universalmente comprensibile. Spesso si nasconde, e ancor più spesso viene nascosta. Fa paura, persino più della malattia fisica, perché ci mette davanti alla fragilità della mente, dell’identità, delle emozioni. E allora, come società, tendiamo a spostare lo sguardo altrove”.

C’è qualcuno/a degli ospiti della struttura che ricorda con maggiore insistenza?

Sì, Silvi. Silvi è difficile da dimenticare. Per me, come per chiunque l’abbia incrociata anche solo tra le righe, è la figura più “umana” di tutte, nel senso più pieno, più doloroso e più bello del termine. È la donna che ama senza misura, che soffre senza difese, che vive con tutta sé stessa, anche quando le viene chiesto o imposto di vivere solo a metà. Silvi non ha filtri: sogna, desidera, spera, si illude e cade. Ma anche quando cade, non smette mai di cercare quel riscatto, quella piccola luce che possa ridarle dignità, significato, amore. Nel suo innamoramento c’è tutto il bisogno di essere vista, scelta, voluta. Nel suo dolore c’è la ferita antica del rifiuto, che in chi soffre di disagio psichico si moltiplica, si stratifica, si incrosta. Ma in lei c’è anche la voglia ostinata di tornare a essere una donna, non un ospite della casa residenziale. Una persona intera, non spezzata”.

Il posto c’è. E si sa. Ma si deve far finta che non ci sia. Le chiedo un pensiero finale su questa sua esperienza che ha riportato nel suo libro…

Il punto è proprio questo: si fa finta che non esista. Perché è più comodo. Perché spaventa. Perché ci costringe a guardare quello che nessuno vuole vedere: la fragilità, la solitudine, la mente che vacilla. E invece andrebbe guardato in faccia, accolto, raccontato. Perché solo così può cambiare.

Scrivere di questa esperienza, di questo mondo sommerso, a volte scomodo, a volte struggente è stato come accendere una luce fioca in una stanza buia. Non per giudicare, ma per capire. Non per risolvere, ma per dare voce a chi, spesso, non ce l’ha. In fondo, questo libro non è solo un racconto. È un atto d’amore. Un atto d’amore verso chi lavora in silenzio. Verso chi soffre ma resiste. Verso chi ha perso l’equilibrio ma non la dignità. Verso chi non viene ascoltato, eppure continua a parlare. E forse, se un giorno smetteremo di “far finta che quel posto non ci sia”… allora sarà un po’ meno isolato. Un po’ meno buio. Un po’ più umano. E anche Agata, Silvi, Mina, Giada e tanti altri senza nome potranno finalmente essere visti. E forse, capiti”.

Ringraziamo l’autrice de “L’isola che non c’è” e ricordiamo che questo libro è parte della Collana Narrativa che vede Antonella Spinosa sempre artefice di una cultura che vuole espandersi e che necessita della partecipazione di tutti noi. Altre sezioni di Arteta Edizioni sono la poesia; così come i saggi. Ma non solo. Avete un manoscritto che volete veder pubblicato? Date uno sguardo al sito e sicuramente troverete le risposte giuste”.

Questo di Amalia Palma, arricchito negli interni da emblematici disegni, vede l’intrigante grafica di Daniele Mugnai e la splendida copertina di Mauro Corna, la quale, non so il perché, mi ricorda le celeberrime scene di Mordillo.

Filippo Di Nardo

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