Come reagire alla perdita del posto di lavoro

Un’amica di vecchia data mi ha chiesto di fare un articolo sulla sua azienda, illustrando le diverse attività e l’importanza che quest’ultima riveste sul territorio, intervistando lei. Lei è donna lavoratrice al meridione, e forse ciò potrebbe bastare, non ci sarebbe bisogno di altre parole, ma lei ha voluto spiegare in qualche modo la scelta di apparire in prima persona.

Ecco, la parola giusta, la chiave di tutto venuta fuori quasi casualmente Prima persona”emersa come le poche e brevi frasi che la mia amica mi ha quasi sussurrato: <<Parliamoci chiaro, qui lavori tanto e dai molto, poi tentano di offuscarti e di non farti emergere. Ciò che faccio di buono serve anche ad altri (questa si chiama collaborazione, fondamentale in qualsiasi lavoro), nel senso che è utile per raggiungere dei risultati, che in genere non sono mai merito di singoli, ma di un lavoro di tante persone. Quello che vorrei far comprendere è che se altri emergono, dietro c’è sempre altro e quindi anche il mio impegno. Non mi è mai interessato sminuire gli altri, ma vorrei puntare su me stessa e dare valore a quello che faccio per me e per gli altri>>.

Riflettendo ho capito una cosa, forse grazie anche al grande (spesso ingombrante) senso critico che segna il mio percorso di vita; sintetizzando dopo un’attenta analisi di quelle parole, credo che la mia amica abbia voluto comunicarmi una cosa importante, segno distintivo della società in cui viviamo: Tu lavori e gli altri sono bravi. 

In un articolo apparso, pochi giorni fa sul sito dell’Ansa si parla della perdita del lavoro e di come questo per molti rappresenti un trauma dal quale bisogna salvarsi assolutamente. Una percentuale abbastanza consistente di uomini e donne pensa che la perdita del lavoro sia più dolorosa della fine di una relazione. A questo proposito, gli esperti consigliano di reagire il più presto possibile, stilando una lista delle proprie competenze e raccomandano di non farsi sopraffare dalla depressione, molto frequente in questi casi. Libri di testo e siti web spiegano come trovare lavoro, ma la ricollocazione è un percorso abbastanza tortuoso. Come reagire alla perdita di lavoro? Indubbiamente, bisognerà esternare la propria rabbia e mai reprimerla, rispettare i propri tempi di recupero, acquisire consapevolezza e più di ogni altra cosa trovare motivazioni. Rialzarsi da un brutto colpo e recuperare la fiducia in se stessi è un’impresa molto ardua, che solo chi ci è passato può capire. Di motivi per reagire ce ne sono, si possono, anzi si devono trovare, inventarseli, se necessario, cercarli per far leva su di essi. Molti esperti consigliano di trovare nuovi stimoli, se necessario frequentando nuovi corsi professionali o di aggiornamento per reinserirsi nel mondo del lavoro, magari con nuove competenze.

Una considerazione, però  va fatta anche sulle diverse correnti di pensiero che vi sono non solo all’estero, ma anche in Italia, che caratterizzano il rapporto fra imprenditori e lavoratori. Negli ultimi tempi (ma anche no, se si va indietro nel tempo si trovano tanti esempi), le aziende stanno puntando su quello che si chiama fattore umano, perché hanno finalmente compreso che il benessere del lavoratore è al centro del successo di un’azienda, del risultato, dei profitti. Oltre agli asili nido nei luoghi di lavoro, per permettere alle madri lavoratrici di poter stare accanto ai figli, trovano spazio momenti ricreativi, palestre, centri di counseling, volti alla risoluzione dei conflitti interpersonali e per aumentare il benessere generale dei lavoratori. Ciò accadeva anche tanti anni fa, sintomo che il progresso non è mai un’occasione che tutti prendono al volo.

Alcune imprese preparano un pacchetto di servizi, per migliorare la vita privata dei dipendenti, introducendo orari flessibili o anticipando bisogni e necessità, che chi svolge un lavoro a tempo pieno non potrebbe soddisfare. Vi sono figure, all’interno dell’azienda che aiutano le persone a occuparsi di assistenza medica o pratiche burocratiche e così via. 

Altre statistiche mostrano come una percentuale alta, circa il 70 – 80% di lavoratori si senta demotivato sul posto di lavoro. Per contrastare questo sentimento molto diffuso, vi sarebbero il riconoscimento del lavoro, i premi di produzione e l’ apprezzamento per le attività svolte che servirebbero a rendere il lavoratore più motivato e produttivo. (Alcuni di questi rimedi sono addirittura a costo zero, come i complimenti). L’autostima è qualcosa alla quale non è possibile rinunciare, il lavoro non serve per generare profitti o per ottenere uno stipendio alla fine del mese, ma rende l’individuo indipendente e soddisfatto di se stesso, lo fa sentire utile; e questa è una sensazione vitale per tutti, è uno status irrinunciabile.

Molte aziende si preoccupano di come il lavoratore debba raggiungere il luogo di lavoro, e per questo attivano car sharing, promozioni sull’acquisto di bici e permettendo a rotazione il lavoro da casa. Qualcuno ha pensato all’alimentazione dei suoi dipendenti, a una dieta sana introducendo prodotti genuini nelle mense o con la concessione di buoni pasto. Infine, imprenditori lungimiranti hanno pensato bene di introdurre la convivialità nei luoghi di lavoro, organizzando feste legate a obiettivi raggiunti, cene o semplici incontri settimanali, per migliorare le relazioni personali e rafforzare lo spirito di gruppo. La cultura e i libri, la cucina e tanti altri aspetti della vita non sono lasciati fuori dall’occupazione principale, perché si inseriscono bene in un percorso, che appartiene al lavoratore, in quanto essere umano. 

La fotografia che esce dalle statistiche citate, dai fatti e dalla percezione della realtà lavorativa maggiormente diffusa negli ambienti sociali, assume più le sembianze di un quadro con diverse sfumature e tante verità.

Qual è il punto allora? Dov’è il problema? Ho deciso di lasciare fuori dal quadro, altre realtà troppo dure da affrontare, legate allo sfruttamento più totale e alla disintegrazione della dignità umana, come quelle esistenti soprattutto nei paesi in via di sviluppo.

Allora? Perché il quadro che stiamo guardando ha tanti colori, mostra tratti offuscati e diversi scenari, panorami che si aprono e si chiudono? Preoccuparsi per gli altri non entra in nessuna voce di un bilancio, chiedere se qualcuno ha bisogno di qualcosa o offrirgli un caffè non fa parte del Business Plan; è uno stile di vita, una forma mentis. La gentilezza e il sorriso sono l’espressione più alta che un essere umano possa raggiungere, e stare bene se stanno bene gli altri è un concetto che solo poche persone comprendono veramente.

Un imprenditore che non riconosce e non apprezza un suo dipendente che problema ha mi chiederete? Crediamo davvero, che tutto il discorso legato ai complimenti, alle gratifiche, al riconoscimento e al rispetto sia semplicemente e banalmente un fattore soldi? Assolutamente no. 

Il lavoro è un solo un aspetto della vita e l’avarizia è in questi casi, la cosa più lontana dal denaro. Vi sono individui che sentono il bisogno di denigrare gli altri, per sentirsi importanti; “se l’altro è il peggio, io sono il migliore” è il loro mantra.

Essere avari di complimenti, di piccole concessioni, cercare campi di competizione insignificanti, solo per prevalere sull’altro denota una ristretta mentalità e problemi ben più gravi. Si può offendere sottilmente, pesantemente o addirittura minacciare, ma il concetto è semplice e offre una massima sintetizzata, nella frase affiorata dai ragionamenti della mia amica, la quale ha rappresentato, senza volerlo e con parole sue: Tu lavori e gli altri sono bravi. 

Per tutto il resto, la vita è qualcosa che si può sempre inventare o dipingere (o ammirare), come un quadro, in fondo nessuno è nato Picasso… ma ci possiamo impegnare!

 

 

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