Come mai non si riesce a sconfiggere la fame nel mondo? Una domanda legittima, che nasconde una verità bruciante: Il colonialismo non è finito e di fatto i paesi ricchi sfruttano ancora i paesi in via di sviluppo.
Jason Hickel è un antropologo e scrittore, originario dello Swaziland e si è occupato di sviluppo, diseguaglianza e politica economica mondiale. Collabora con il Guardian, Al Jazeera e numerose testate online. Lo scrittore stila un’attenta analisi nel suo primo libro tradotto in Italia, The Divide.
C’è una frattura che sta crescendo attorno a noi. L’abbiamo ignorata, creduta lontana, eppure da più di cinquant’anni allarga i suoi confini, spalancando voragini invisibili tra continenti, nazioni e cittadini. È «the Divide», il divario economico tra ricchi e poveri del mondo: 4,3 miliardi di persone vivono con meno di 5 dollari al giorno mentre gli otto uomini più ricchi del pianeta possiedono lo stesso patrimonio della metà più indigente della popolazione globale.
Per decenni economisti, politici, agenzie per lo sviluppo ci hanno raccontato che l’origine del problema sarebbe «tecnica», legata a difficoltà interne dei paesi più poveri, e che tutto potrebbe essere risolto se questi adottassero istituzioni politiche e piani di intervento adeguati. Che, anzi, con l’aiuto dell’Occidente la povertà sarà sconfitta nel 2030. Solo che non è così. Jason Hickel ripercorre la storia dello squilibrio economico globale, smontando una dopo l’altra le bugie che ne hanno accompagnato la narrazione e mettendo in luce le responsabilità dai paesi più ricchi, ricostruendo, attraverso una scrittura chiara e documentata, il complesso quadro storico dei problemi economici del cosiddetto «terzo Mondo» ipotizzando soluzioni possibili.
tratto da un estratto di The Divide
L’economista americano Jeffrey Sachs, ex direttore degli Obiettivi di sviluppo del millennio e consigliere speciale del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon è diventato l’apostolo degli aiuti allo sviluppo della nostra epoca e una sorta di rockstar, riuscendo per ben due volte ad assicurarsi un posto nella lista delle 100 persone più influenti del mondo stilata dalla rivista Time.
Nel suo best seller del 2005 espone una tesi semplice: Non è colpa di nessuno, dice, se i paesi poveri continuano a essere poveri. La colpa è di casualità naturali legate alla geografia e al clima, che si possono facilmente risolvere. Se i paesi ricchi aumentassero i loro aiuti ai paesi in via di sviluppo portandoli allo 0,7 per cento del Pil, saremmo in grado di sradicare la povertà nel mondo in soli vent’anni.
La cosa importante qui non è il contenuto della proposta (su cui pochi avrebbero qualcosa da ridire), ma la storia che implica: non solo i paesi ricchi non sono responsabili del sottosviluppo dei paesi poveri, come già sottolineava Rostow, ma tendono loro la mano con amorevole preoccupazione. Le idee di Sachs hanno ridato slancio alla narrazione degli aiuti ai paesi poveri per un’altra generazione, e hanno ricevuto il plauso dai governi della maggior parte dei paesi ricchi del mondo, che infatti, in molti casi, hanno provveduto a incrementare di conseguenza gli stanziamenti per gli aiuti. La narrazione degli aiuti era utile perché non prendeva minimamente in considerazione la possibilità che le potenze occidentali fossero in qualche modo responsabili delle sofferenze del Sud del mondo.
Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna avevano appena invaso l’Iraq per garantirsi (fra le altre cose) l’accesso alle ingenti riserve petrolifere della regione, e l’amministrazione Bush aveva appena contribuito a rovesciare il governo progressista di Jean-Bertrand Aristide a Haiti e tacitamente appoggiato un tentativo di golpe contro il capo di Stato venezuelano Hugo Chávez, continuando la lunga storia di interventi aggressivi avviata da Eisenhower negli anni cinquanta. Ma il flusso di aiuti, nonostante tutto, continuava a offrire la prova inconfutabile della benevolenza dell’Occidente. Era una questione di gestione della percezione.
Se guardiamo più da vicino, però, anche questo aspetto della storia dello sviluppo si sgretola nell’incoerenza. Non è che i 128 miliardi di dollari di aiuti non esistano: esistono. Ma se allarghiamo lo sguardo e le contestualizziamo, vediamo che le risorse finanziarie che scorrono nella direzione opposta sono enormemente superiori. In confronto, gli stanziamenti per gli aiuti sono un semplice rivolo.
Alla fine del 2016, la Global Financial Integrity, una Ong americana, e il Centro di ricerca applicata della Norwegian School of Economics hanno pubblicato alcuni dati che cambiano completamente la nostra prospettiva.
Hanno calcolato tutte le risorse finanziarie trasferite ogni anno fra paesi ricchi e paesi poveri: non solo aiuti, investimenti esteri e flussi commerciali, come avevano fatto studi precedenti, ma anche altri tipi di trasferimenti, come remissioni del debito, rimesse degli emigranti e fughe di capitali. È la valutazione di trasferimenti di risorse più esaustiva che sia stata fatta finora. Il risultato è che nel 2012, l’ultimo anno per cui erano disponibili dati, i paesi in via di sviluppo hanno ricevuto poco più di 2000 miliardi di dollari, compresi tutti gli aiuti, investimenti e redditi dall’estero. Nello stesso anno, però, più del doppio di quella cifra, qualcosa come 5000 miliardi di dollari, ha seguito il percorso inverso. In pratica, i paesi in via di sviluppo hanno «inviato» al resto del mondo 3000 miliardi di dollari in più rispetto a quelli che hanno ricevuto. Se guardiamo tutti gli anni a partire dal 1980, questi deflussi netti raggiungono lo sconvolgente totale di 26 500 miliardi di dollari: a tanto ammonta la cifra drenata dai paesi del Sud del mondo negli ultimi decenni. Per avere un’idea dei numeri di cui stiamo parlando, 26 500 miliardi di dollari sono all’incirca il Pil degli Stati Uniti e quello dell’Europa occidentale sommati insieme.
In che cosa consistono questi enormi deflussi?
Una parte è rappresentata dai pagamenti degli interessi sul debito. Oggi i paesi poveri pagano ogni anno oltre 200 miliardi di dollari solo in interessi a creditori esteri, per la maggior parte relativi a vecchi prestiti che sono già stati largamente rimborsati e in parte relativi a prestiti accumulati da dittatori avidi. Dal 1980, i paesi in via di sviluppo hanno sborsato oltre 4200 miliardi di dollari sotto forma di pagamenti di interessi, molto più di quanto abbiano ricevuto in aiuti nello stesso periodo. E la gran parte di questi pagamenti è finita nelle tasche di creditori occidentali: un trasferimento diretto di denaro contante verso le grandi banche di New York e di Londra.
Un altro apporto significativo è rappresentato dal reddito che gli stranieri incassano dai loro investimenti nei paesi in via di sviluppo, e che si riportano in patria. Pensate a tutti i profitti che ricava la Shell dalle riserve petrolifere della Nigeria, per esempio, o la Anglo American dalle miniere d’oro del Sudafrica. Ogni anno gli investitori stranieri estraggono dai paesi in via di sviluppo quasi 500 miliardi di dollari di profitti, la maggior parte dei quali ritorna nei paesi ricchi. Poi ci sono i profitti che i cittadini europei e americani ottengono dagli investimenti in azioni e obbligazioni del Sud del mondo, attraverso i loro fondi pensione, per esempio. E ci sono anche molti altri piccoli deflussi, come i 60 miliardi di dollari extra che i paesi in via di sviluppo devono pagare ogni anno ai proprietari di brevetti stranieri in base al Trips (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), l’accordo dell’Omc sui diritti di proprietà intellettuale, per accedere a tecnologie e prodotti farmaceutici spesso essenziali per lo sviluppo e la salute pubblica.
Il senso di tutto questo è che i paesi poveri sono creditori netti dei paesi ricchi, esattamente il contrario di quello che diamo per scontato abitualmente. Quando consideriamo gli stanziamenti per gli aiuti in un contesto più ampio, però, non dobbiamo guardare solo ai flussi verso l’esterno, ma anche alle perdite e ai costi che i paesi in via di sviluppo subiscono a causa di politiche escogitate dai paesi ricchi. Per esempio, quando negli anni ottanta e novanta furono imposti i programmi di aggiustamento strutturale ai paesi del Sud del mondo, questi persero circa 480 miliardi di dollari l’anno in termini di Pil potenziale, quasi il quadruplo della cifra che oggi viene stanziata ogni anno per gli aiuti. Più di recente, gli squilibri all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio hanno causato perdite per 700 miliardi di dollari l’anno in ricavi potenziali dalle esportazioni, sei volte di più del budget destinato agli aiuti.
Ma forse la perdita più significativa è quella che ha a che fare con lo sfruttamento che viene perpetrato attraverso gli scambi commerciali. Dall’inizio del colonialismo fino all’era della globalizzazione, l’obiettivo principale del Nord è sempre stato quello di ridurre forzatamente il costo del lavoro e delle merci acquistati dal Sud.
Alcuni anni fa ho avuto l’opportunità di visitare la Cisgiordania, in Palestina. In un pomeriggio particolarmente caldo, i miei anfitrioni mi accompagnarono nella valle del Giordano per intervistare alcuni contadini sui problemi idrici. Lungo la strada, mentre procedevamo sobbalzando su una strada sterrata, ci imbattemmo in un enorme cartello bianco che spuntava dalle rocce del deserto. Il cartello annunciava un’iniziativa dell’Usaid (United States Agency for International Development, Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale) per contribuire ad alleviare le carenze idriche ricorrenti attraverso l’aggiunta di un nuovo pozzo nella regione. Il cartello recava una bandiera americana e tali solenni parole: questo progetto è un dono del popolo americano al popolo palestinese.
Un osservatore distratto potrebbe rimanerne favorevolmente colpito: i soldi dei contribuenti americani offerti generosamente, con spirito umanitario, per aiutare i palestinesi bisognosi che lottano per sopravvivere nel deserto. Ma in Palestina l’acqua non manca. Quando Israele invase e occupò la Cisgiordania nel 1967, con il sostegno dell’esercito americano, si arrogò il diritto di controllare tutte le falde acquifere presenti nel territorio. Israele preleva la maggior parte di quest’acqua – quasi il 90 per cento – per rifornire i coloni degli insediamenti e irrigare le grandi aziende agricole. E quando cala il livello delle falde, i pozzi palestinesi rimangono a secco. I palestinesi non possono scavare più in profondità i loro pozzi o crearne di nuovi senza il permesso israeliano (e il permesso non viene quasi mai accordato). Se li costruiscono senza autorizzazione, come molti fanno, il giorno dopo arrivano i bulldozer israeliani. Perciò i palestinesi sono costretti a comprare la loro acqua da Israele a prezzi arbitrariamente elevati.
In questo contesto, che posizione occupano le organizzazioni umanitarie, da molti criticate, perché richiedono continuamente donazioni a comuni cittadini sotto diverse forme, per far fronte alle tante necessità dei paesi in via di sviluppo?
Non sarebbe il caso di far fronte comune per abbattere le diseguaglianze e insegnare ai paesi poveri a camminare sulle proprie gambe, a provvedere ai propri bisogni?
fonte: Linkiesta.it
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